Vecchia confraternita, antico mestiere, e disciplina: ma anche sapienza vera, talora. Così il ceramista. Il quale sa d’elementi, e materie, e d’un colore che non vale apparenza. E sa di sostanze, soprattutto del formarsi, del distinguersi primo, nell’avventura oscura e meravigliata della figura.
Il ceramista è ben consapevole di agire in una zona sorgiva della scultura, nel punto – così ricercato e scavato in tempo moderno – in cui la processualità stessa dell’opera è scambio profondo e senza primazie tra l’intenzione intellettuale e il corso impadroneggiabile dei gesti, delle necessità concrete, delle fisiologie della materia. Per questo agisce, quando scelga per sé un destino di terra formata, in una sorta di inattualità rivendicata: lontano dalle derive mediatiche del simulacro, ben confitto nel punto in cui l’indistinto si fa forma del senso.
Guardo le opere nuove di Luigi Belli, autore tra i giovani che reggono una continuità storica fatta di atteggiamenti intellettuali, e di scelte fabrili, che ben potrebbe dirsi, senza timore, tradizione, dimostrando come essa sussista perché realmente capace di ripensarsi ogni volta in radice, e dar corso ad espressioni nuove, necessitate.
Si tratta di opere in cui si assiste al porsi di uno standard formale, di una serie di convenzioni iconografiche e concettuali, come matter problematica. La sagoma geometrica che vale mattone, il quale a sua volta vale fondamento del costruire preventivo e ordinato; la striscia che è tegumento fluido del volume, ma anche continuum plastico che reagendo a dinamiche interne genera forma. E’ la premessa operativa, questa, d’un agire sommesso, concentrato, che man mano nel tempo si è decantato di ogni facile sensibilismo, di ogni scontata erotica materiale, e allo stesso tempo di quegli antagonismi tra mano e terra che hanno fatto retorica nella stagione – a ben vedere non così lontana – dell’informale.
Belli serra, dapprima, questi monemi retorici in una sorta di spalto materiale – era seme, ora appare totem – chiuso, duro, di reticente alterità. Poi, facendo, saggia e man mano fa riverberare le intrinseche dolcezze di queste shapes, la loro natura originaria di materia crescente per dramma e simpatia, le linee di forza che nella terra cruda appaiono vocazioni, e insieme accidenti; possibili, e picchi d’alea.
L’immagine si costituisce così su una sorta di registro in cui lo schema del possibile formale si modifica, ad ogni fase, verso un impreveduto plastico, come un individuo che, crescente da premesse genetiche salde, si ritrovi, appunto, individuo, apparizione accecata in forma: ove avverti quel philum di crescita, quel voler e poter essere, e ciò che è; la norma e l’eccezionale.
Belli s’è dato riferimenti problematici precisi, il Fontana del barocco lussureggiante e del mistero delle Nature così come il Leoncillo del dramma affocato d’una forma non retoricamente convulsiva, il Valentini rabdomante di archetipi e il Tasca dalle brusche carezze materiali. Riferimenti problematici, non modelli, beninteso. Ha ritrovato, per sé, il passo di una formatività che è ancora quella della terra, del gesto primo del vasaio che segna un destino, del rapporto tra artefice e sostanza (“Io sono l’argilla”, si legge nel Libro), attraverso una via della modernità totalmente antiretorica, che passa per vie radicalmente altre rispetto alla conflagrazione definitiva del senso dell’immagine.
Corpi sono, queste sculture, prima di tutto, corpi motivati, corpi con identità. Essi si offrono alla luce, allo sguardo, forti della propria ragion d’essere, orgogliosi si direbbe della propria alterità definitiva. Corpi estranei, secondo i registri consunti del moderno in arte. Ma proprio per ciò, nella loro appartatezza definitiva, ineludibili, per chi voglia ancora cercare senso e rivelazione nella cosa dell’arte.
Questo dice la tensione feroce della loro generazione che si fa, di per se stessa, forma; questo, la loro pelle aspra, d’un colore slontanato e come disagiato nella anesteticità, ma capace di luce, e d’una captazione persistente della visione, della memoria, degli affetti.
Sono opere dure e bellissime, queste di Luigi Belli. Opere, appunto, infine.
Flaminio Gualdoni
(Divertite terre, 2003, Galleria l’Affiche, testo in catalogo)