Valerio Dehò

Luigi Belli: Oltre il particolare

Nella formazione delle sue proprie morfologie, Luigi Belli non si rivolge agli archetipi, ma affronta una sorta di “oggettivazione”, di iperbole dell’oggetto creando dei contenitori, degli scaffali, chiamati casette, all’interno delle quali si sedimentano veri e propri elenchi di cose. La sua natura fortemente figurativa, in questo caso si spinge verso una narrazione modulare in cui i ritmi vengono scanditi da forme quadrate che espongono il loro contenuto. Naturalmente questo presuppone un racconto che non può che essere libero, cioè procede per successive associazioni, rimandi e smentite. E’ una proliferazione indefinita, le cose producono altre cose e insieme danno vita al senso. Ma tutto procede da una forte manualità, da una tecnica che si esalta nell’essere esplicita e non nascosta. Non credo vi siano delle sequenze predeterminate che aprono i ritmi della visione in certezze discorsive. Credo fondamentalmente che l’artista abbia in sé l’idea di un’accumulazione, di un elenco che si dà per provvisorio perché non potrà mai essere esaustivo e che comunque non si pone né dei vincoli né dei limiti… Il rifiuto di affidarsi al caldo abbraccio dell’archetipo, quindi a ciò che è fuori dalla storia, fa parte di una scelta di porre l’arte dalla parte dell’immanenza, di ciò che accade e non di ciò che è accaduto. L’atemporalità, l’assenza del flusso delle cose, dà il conforto dell’eterno, però rifiuta un dialogo con il presente, dà quest’ultimo come assolto, senza vincoli e senza conseguenze sul passato. Invece anche l’idea del disordine, cioè di una specie di sorpresa di un mondo inaspettato da parte dello spettatore, fa parte di questo presente, lungo, disteso, componibile, per usare un termine delle avanguardie letterarie degli anni sessanta.

Oggi, quindi, le forme-oggetto sono presenti perchè rispondono all’appello della creazione ed è il caso di affrontare un’analisi… Accanto ad una serie di dettagli, di particolari significativi e significanti, cioè di quegli oggetti che si definiscono per le loro parti, si mostrano in altre opere delle vere e proprie opere d’arte, animali o figure umane già in forma di rappresentazione. La coralità non è così una caratteristica dell’oggetto, ma lo è nella sua forma rappresentativa, quindi è una scelta di Belli dare questo senso complessivo al lavoro. Anche le forme che sembrano più astratte hanno una loro specifica caratteristica che le pone in una sorta di lista d’attesa di un possibile, probabile, aggregamento in una unità più grande e funzionale. E questo rende interessante proprio l’idea dell’accumulo, di un sedimento culturale che diventa metafora di quello naturale. Quasi che il gioco del mondo presupponesse una ricomposizione da parte dello spettatore stesso, che la parola “comprendere” fosse sullo stesso piano del cogliere il mondo nella sua definitiva epifania. Al contrario di Tilson, in Belli non si cerca una rappresentazione semplificata e infantile. Le casette sono luoghi di transito, aperti verso il mondo, trasparenti e luminose di colore e di riflessi che amplificano il rapporto con l’ambiente. Se la ceramica ha spesso flirtato appunto con l’atemporalità, quasi naturalmente per la storia e l’universalità della tecnica, in questo caso si lascia la storia alla storia, e si recupera un senso pop dell’affastellarsi delle cose, anche come dettagli, quasi per metonimia. Le stesse forme rappresentate appartengono già all’arte, sono forme chiuse in cui si possono anche trovare delle citazioni, ma che hanno un senso all’interno delle teche in cui vengono conservate. Questo senso allora di una coralità protagonista, assoluta e nello stesso tempo di un vero e proprio archivio danno un valore forte al lavoro, che non è mai scontato. Si avverte una percezione temporale aperta ma con una sensazione di definitivo, quasi un’estrema consapevolezza dell’artista a conservare, preservare una cultura sulla soglia di un abbandono, di una catastrofe. Ma soprattutto c’è un senso luminoso e non claustrofobico, concentrato su se stesso, non ripiegato su se stesso.

Così nella “Foresta” il rapporto dimensione-colore porta alle stesse conseguenze, anche se con opere distanti per concezione e impianto. Non solo si tratta di un lavoro che chiude un ciclo precedente, ma fa capire ancora una volta che la vocazione ambientale di Belli trova sempre il modo di trovare un piano di affioramento, anche nelle situazioni più diverse. La ceramica si porta su di un piano diverso rispetto ad una tradizione che la vuole confinata o all’astrazione esistenziale di Leoncillo, Fontana e Giacinto Cerone oppure alla tradizione della variante non funzionale degli oggetti d’uso. La “Foresta” e anche le casette che possono evocare il lavoro di Bruno Raspanti, vogliono portare il mezzo a superare i limiti della tecnica, attingendo a risorse nuove in cui le dimensioni giocano un ruolo di fuori scala abbastanza spiazzante e quindi perfettamente riuscito. Si avverte quindi in queste scelte e in questi lavori, un tentativo di portare al limite un discorso che l’artista ha chiaro su se stesso, dando energia, luminosità e spazialità a dei lavori che vogliono sorprendere, ma che non rinunciano all’analiticità di essere anche capiti e apprezzati fino ed oltre l’ultimo particolare.

Valerio Dehò

(Spazi presi, Galleria l’Affiche, 2007, testo in catalogo)